sabato 17 ottobre 2020

Intervista a Giuseppe Raineri vincitore per il secondo anno consecutivo del I° Premio Monologo Teatrale.

 


Forse non tutti sanno quanto sia determinante, nello stilare le classifiche, la valutazione del Presidente di Giuria l’editore Giuseppe Laterza. A lui spetta, infatti, selezionare tra i lavori già individuati in anonimo dalla giuria di qualità, i vincitori di ogni sezione. 

Sia ben chiaro che nessuno dei giurati, tanto meno il Presidente di Giuria, riceve alcuna informazione circa gli autori. Che questi siano autori o autrici, noti o meno noti, sono solo particolari intuibili dal contenuto dei loro scritti. 

Immaginabile è la gioia di chi, come in questo caso l’autore Giuseppe Raineri, si vede consegnare durante la serata di premiazione, e per il secondo anno consecutivo, il Primo Premio. 

Inimmaginabile è invece la sorpresa dell’editore Giuseppe Laterza il quale, solo a fine serata, apprese d’aver premiato lo stile e il contenuto di un autore da lui già apprezzato nella precedente edizione del Premio. 

A Giuseppe Raineri, al quale come da regolamento riservammo a chiusura della XIV Edizione una intervista, riproposta al seguente LINK, chiediamo di raccontarci eventuali novità. Ci dica se nel frattempo ha ricevuto altri riconoscimenti, se ha ottenuto altre pubblicazioni e a cosa attualmente si sta dedicando. 

Nel periodo intercorso dalla XIV edizione, mi sono dedicato alla stesura di alcuni racconti che rappresentano un ottimo esercizio per dare forma a idee, a suggestioni che assorbo da letture e dall’osservazione del mondo che mi circonda e che potrebbero rappresentare il piccolo seme da cui sviluppare storie di maggior respiro. 

L’impegno maggiore però è stata la revisione di un romanzo che avevo già terminato; si intitola “La prima notte di quiete” in cui un’anziana professoressa di matematica estremamente razionale si dovrà confrontare con sette sogni imperniati sui sette peccati capitali. Per quanto impalpabili nella loro sostanza, i sogni le presenteranno altrettante situazioni reali e problematiche cui trovare una soluzione; ci riuscirà con l’aiuto della nipote sua ospite per un certo periodo.


Nel frattempo ho iniziato e terminato anche un altro romanzo, “Il collezionista”, un omaggio alla magia dei libri e delle biblioteche. 


Entrambi i romanzi sono inediti e spero di trovare una casa editrice che li ritenga meritevoli di pubblicazione. 

In fine hanno visto la luce la trasposizione teatrale di “Plissé”, il mio primo romanzo, sia in forma di monologo che di commedia a due voci, maschile e femminile, che interpretano più personaggi ed un ulteriore commedia incentrata sull’identità al femminile dal titolo un po’ lungo: “Nessun gineceo si addice a quelle quattro (La metà del mondo può salvare l’altra?)”. Per “Plissé” regista ed attori sono già al lavoro perché se ne possa vedere la rappresentazione su un palcoscenico.


Lo scorso anno si è presentato e ha vinto con un monologo dedicato a Ipazia d’Egitto, quest’anno, invece, ci ha proposto, come scrive Laterza nella sua nota, un mare umanizzato, rappresentando così un’altra ingiustizia nei confronti di un “grande”. Il suo è un Mare dallo sguardo paterno, che punisce e perdona, ma che in particolare si rivolge a quella prole ingrata con un monito che tra le righe svela una preghiera. Ce ne spiega il significato? 

Permettetemi una breve premessa. 

L’ispirazione che mi guida nella scrittura, si fa strada nel tempo quasi inconsapevolmente, mescolata a tante idee e sensazioni che si sovrappongono, entrano in conflitto, mi seducono anche se a prima vista sembrano slegate tra loro. 

Poi tutto si condensa e prende una forma definita per effetto di un fatto, magari un dettaglio insignificante, una considerazione all’apparenza del tutto estranea a quello che potrà maturare in seguito, una lettura, che mi inducono a concentrarmi su qualcosa di particolare che darà significato e seguito ad un preludio caotico. 

La lettura di “Breviario Mediterraneo” di Pedrag Matveievic ha rappresentato l’innesco di una deflagrazione, lo stimolo decisivo a dar voce al Mediterraneo e ad approfondirne la storia, il ruolo decisivo nelle vicende di tutto il pianeta, spingendomi poi a divorare famelicamente altri testi. 

Ciò che mi ha guidato è un sottile ma profondo rimpianto per le enormi potenzialità del genere umano troppo spesso tradite, per la bellezza dimenticata in nome di piccinerie e delle superficialità ostentate da una società troppo distratta e indifferente. 

Da qui prende spunto il ritmo di una preghiera nota, ma opportunamente rivisitata, che fa da sfondo allo sfogo di chi si sente padre, ma anche madre, la culla della civiltà. 

Padre e madre a volte sereni, a volte severi, a volte anche brutali con un inconsolabile rimpianto per quanto di bello rischia di morire per trascuratezza, per indolenza, per distrazione di chi è abbagliato, attratto da un benessere ingannevole che ci costringe a focalizzare i nostri sforzi solo su un presente che fagocita il futuro e nasconde alla nostra vista il passato. 

Ma fortunatamente rimane viva ancora la speranza di chi ha memoria.


Deve essersi davvero immedesimato in questo nostro Mare, fonte di vita. Quanto tempo le è servito per riuscirvi così bene? 

 In prima stesura, non mi riesce quasi mai una versione già definitiva. 

Scrivo di getto e poi devo avere il tempo di lasciare sedimentare quanto ho espresso di primo acchito. 

Questa versione generalmente è improponibile e necessita di revisioni continue al punto di non sentirmi mai pienamente soddisfatto. Immedesimarmi è il termine corretto per dare l’idea del processo che mi ha guidato per lunghe settimane nella scrittura del monologo. 

La parte più difficile è consistita nell’accettare la sfida di una lunghezza del testo da rispettare ma che accetto di buon grado perché mi costringe ad esprimere emozioni con una sintesi efficace, con la forza che dovrebbe avere l’essenzialità. 


Lei è nato e risiede a Bergamo, pertanto avrà ultimamente vissuto momenti drammatici. Ci perdoni questa domanda che non intende toccare i suoi sentimenti, vorremmo solo chiederle se durante il lockdown, in quei momenti così difficili, la scrittura sia riuscita a venirle incontro e, in qualche modo, a infonderle sollievo e coraggio. 

L’uso del tempo è un’arte difficile, sempre. 

Nel periodo della clausura forzata ho alternato momenti di impegno intenso ad altri in cui non riuscivo a concretizzare con efficacia idee e progetti narrativi. 

Scrivere è stato certamente di aiuto nei momenti in cui il silenzio, che sembrava l’effetto di un evento catastrofico, di una guerra batteriologica, veniva rotto solo dal rumore incessante delle sirene delle autombulanze. 

Ci sapevamo tutti vicini ma ci sentivamo tutti lontani. 

Soprattutto all’inizio di questo periodo in cui ho alternato con poco ordine lavoro a distanza, l’attenzione alla famiglia nuovamente ed insolitamente riunita, la lettura e la scrittura ho vissuto la sensazione paradossale della dispersione. 

Non considerando la gravità della situazione, mi sarei dovuto trovare in una condizione di creatività quasi ideale nell’isolamento da distrazioni, invece ho alternato momenti di rara intensità nel tradurre pensieri in parole come in una catarsi ad altri in cui mi risultava difficile anche solo macchiare una pagina, fosse anche di inchiostro virtuale. 

Un continuo fare e disfare senza alcun approdo. 

Mi aspetto ed auguro che con il tempo questi sforzi, all’apparenza senza un risultato, possano tradursi in riflessioni, considerazioni più profonde dopo l’emotività del momento; emotività che annebbia la lucidità necessaria per una narrazione che aiuti a riflettere con la dovuta serenità chi scrive e chi lo legge. 


Monologo vincitore del I° Premio

Mare Nostrum


Mare nostrum quod es inter terras


Molti e diversi sono i miei nomi.

Le genti che abitano le mie sponde, da sempre credono di avermi generato dandomi un nome, tuttavia io ero, sono e sarò e nessuno potrà mai arrogarsi diritti che non ha, né gli riconosco.

Anche un figlio “è” e vive libero col nome dato da altri, ma nessuno mi è stato padre.

Conservo le memorie e ciò che resta di chi per imperizia, per sprezzo del pericolo, per ingordigia, per paura, per disperazione ha troppo osato.

Eroi e pavidi, esploratori e pigri, vecchi e giovani, maschi e femmine, uomini e dei, re e schiavi per me non fanno alcuna differenza, tratto tutti alla pari, io sono come la morte e non ho riguardo per nessuno.

Sempre sarò culla e sepolcro.

Le mie acque hanno raccolto sangue e lacrime di gioia e di dolore.

Sulle mie rive ho visto nascere e morire religioni, monarchie e repubbliche, dittature e democrazie, santi e diavoli, malvagità e bellezza, città e villaggi in un turbine di trasformazioni senza fine.

Sono testimone dei destini di nazioni che si credevano indistruttibili, convinte di poter sfidare impunemente l’eternità e di quelle che, pur lontane, hanno subito l’influsso di idee e costumi nati qui.

Tutto il pianeta ha dovuto fare i conti con quello che è successo intorno a me.

Mai nessun altro mare ha sentito risuonare tanti idiomi diversi.

Ho fatto miei i frutti, gli alberi e colture venute da lontano, come se da sempre mi appartenessero.

Le terre che mi circondano in un dolce abbraccio materno sono invece agitate come io lo sono e hanno trasmesso questa inquietudine ai popoli che le abitano e che hanno dovuto lottare senza requie per rubare lembi di terra alle acque, sanare paludi, fronteggiare maree e le onde che sanno essere carezza e schiaffo.

Basta poco perché tutto torni selvaggio come prima.

Sono come il deserto, ci accomuna il silenzio, il vento, l’insidia di rimanerne prigionieri.


Da nobis vitam et scientiam

 

Le giuste distanze vi hanno garantito autonomia e possibilità di scambi continui in una eterna lotta tra nomadi e sedentari.

Avete solcato le mie onde e come moto ondoso vi siete spinti in avanti e poi ritirati secondo cicli mai interrotti.

Grazie a me, quello che è giunto fino alle mie rive, seguendo percorsi lunghi e faticosi, ha infine trovato rapidi sbocchi ovunque, per diventare patrimonio di molti.

Da sempre sono terreno fertile di migrazioni per fame di conquista, per disperazione.

Due simboli tra i tanti bastino a ricordarmi.

Venezia, città impossibile e splendida che poggia maestosa su una foresta sommersa e lotta con caparbia tenacia contro acqua e tempo, pur fuori dal tempo.

E infine tu Ulisse, il figlio amato, affamato di avventura e di conoscenza a cui non hai esitato sacrificare le vite dei compagni e mettere a repentaglio la tua, tu che hai avuto l’ardire di sfidarmi quando gli uomini credevano che divinità capricciose mi abitassero, tu che su questo mare potevi vantare pretese da re dopo essere sopravvissuto a prove durissime e sfidato le mie inquietudini, tu non sei riuscito a domare la tua curiosità insaziabile e nemmeno io ti sono bastato, né le braccia pazienti e calde della fedele Penelope.

 

 Da nobis pacem

 

Che ne sarà di me, di voi, di noi, di questo piccolo mondo, dell’universo intero?

Al calar della sera mi invade una malinconia densa e scura e mentre il sole s’immerge nelle mie acque e l’oscurità della notte vince sulla luce, io divento cielo e il cielo mare.

Comprendo la vertigine di chi si lascia ammaliare e sente di essere finalmente parte del tutto mentre la bramosia di prevalere, di possedere, l’arroganza e l’illusione di sentirsi onnipotenti si liquefano e si stemperano.

È un po’ come morire a poco a poco.

Le mie onde accarezzino le vostre terre e vi cullino con un moto lieve, che io sia talamo e le stelle tetto, non pensate con ansia al domani, non permettete all’angoscia di invadere il cuore e la mente.

Abbandonatevi ai sogni, lasciateli librare come gabbiani che veleggiano sulle mie acque, siate lieti.

 

Amen.


Motivazione della Giuria

Se la Terra è da sempre considerata la madre dell’umanità, al Mar Mediterraneo si deve riconoscere il ruolo di padre della civiltà. E il Mediterraneo, che in questo senso può considerarsi il padre di tutti i “Mari”, umanizzato dall’autore, diviene voce di una profonda preghiera, un “Padre Nostro” laico, qui presentato sottoforma di monologo.

Come fosse davvero padre, gli vengono attribuite doti di autorevolezza e imparzialità. La sua è presenza costante: dispensatrice di ricchezze, autrice di mediazioni. Come un padre, nel bene e nel male, mai si risparmia, a costo anche di sacrificare la propria salute. Ed è qui che traspare, nella parola a lui data, una nota di rammarico per quei figli ostinati a non seguire l’indirizzo del padre.

Ma il mare avrà comunque una vita propria, a prescindere dalle dimenticanze dei figli e dalle loro cattive abitudini.

Una preghiera che ha il pregio di far intravedere un monito, pur senza cadere nelle acque della retorica.

Mare Nostrum quod es inter terras/Da nobis vitam et scientiam/Da nobis pacem/Amen.

Assunta Spedicato.

Nota del Presidente di Giuria

La descrizione risulta originale e molto valida per un monologo in cui questo “mare” viene umanizzato. Ci parla, quindi, e racconta la sua storia, le sue sensazioni, come un dio mitologico destinato ad essere al servizio di una umanità spesso ingrata e irriconoscente, avida di coglierne solo i benefici come bellezza e frutti, spunti per la propria ingorda fantasia, pronta a speculare sulle risorse che esso offre, incurante delle forze che può sprigionare per affermare pure la sua forza naturale.

Un mare che ci apre il suo cuore e, in fondo, riesce a commuovere, a convincere e a indurre a sentimenti di libertà.

Giuseppe Laterza.

Nessun commento:

Posta un commento