sabato 1 agosto 2020

Concorso “Invito alla poesia” XIII Edizione 2020

Trieste

Un invito ad incontrarsi come poeti, a conoscere e riconoscere i nostri valori più profondi attraverso la parola fine e “onesta” (Umberto Saba) della poesia. Un concorso (e una associazione: Poesia e Solidarietà) nati dal desiderio di curare la parola, ascoltandola quasi con trepidazione nelle più umili delle sue sfumature e facendone pepite di luce.
Nella immagine di copertina: in festa dopo le premiazioni.

La giuria composta da


Hari Bertoja, Sofia Cassanelli Apostoli, Elena Giacomin, Maria Luisa Grandi, Ottavio Gruber, Assunta Spedicato, Fabrizio Stefanini, Gabriella Valera, 

fra le 671 poesie pervenute ha indicato i seguenti vincitori dell’edizione 2020 del Concorso “Trieste…Invito alla Poesia”



Introduzione

Per una poetica del dolore. Poesie dal nostro tempo
di Gabriella Valera e Ottavio Gruber

Il valore della testimonianza e la poesia.
Quando viene dato alle stampe un libro di poesie di vari autori, ai quali non sia stato assegnato un tema comune per una loro consapevole autoselezione, spetta in genere al curatore, o ai curatori, il compito di ritrovare se possibile, un motivo che li accomuni in un canto quasi corale, in un comune e reciproco sentire, che, come per un’alchimia indifferibile, rimanda da un testo all’altro, da una speranza a un tenue coraggioso dire, da una disperazione a un vuoto profondo, da un vuoto d’amore a un infinito amore.
Nel caso della nostra antologia che è il frutto di una selezione per un concorso, a renderla preziosa come un tutto di pensiero e di sentimento è stato anche il lavoro della giuria che ha impresso con le sue scelte le sfumature della sua condizione umana, e “lo spirito del tempo”. Questa antologia, non tematica, reca in sé il segno del tempo in cui è nata. Tempo di pandemia, tempo di dolore profondo. E se anche le poesie inviate non ne riflettevano il senso e la realtà effettiva, ci si è ogni volta dovuti
domandare perché gli autori selezionati (e merito va anche a quelli non selezionati) hanno scelto proprio quella e non altra poesia a testimoniare la loro condizione di poeti in questo tempo.
Il rapporto fra dolore e poesia è stato spesso oggetto di riflessione da parte della critica. Talora un po’ artificiale quasi obbligato come argutamente scrive Antonio Girardi in “Poeta per dovere”, quasi che il poeta temesse di rimanere al di qua della poesia preso dalla frenesia di “raccontare la sua anima a brandelli” piuttosto che conservare la voce genuina del menestrello senza provar vergogna di denudare i sentimenti. Oppure il rapporto fra poesia e verità/giustizia, come in “Azzeccate” di Mauro Milani.
Indubbiamente c’è una grammatica del dolore, un insieme di parole e locuzioni che ne articolano il discorso (rimpianto, nostalgia, solitudine, assenza e molte altre), una “retorica” del dolore (nel senso alto del termine: i suoi luoghi comuni in cui ritrovarsi con anima consonante e lamento corale: la morte, la guerra, la crudeltà…).
Ma cosa solleva ciò che vien detto e scritto sul dolore al livello misterioso e ogni volta peculiare della poesia?
Una “poetica” del dolore restituisce la sua identità drammatica, la sua radice incisa nell’animo dei protagonisti del testo e del poeta, del loro esistere lì dove il dolore accade, urla, si ripiega su se stesso o cerca riparo, coinvolge su un piano di eguale, metafisico incontro l’umanità e la natura, si riconosce come “fatto” della storia o infine si sublima in un dato d’amore.
In questo senso il libro che qui ci si presenta riesce ad elaborare una “poetica” del dolore, che non incrudelisce ma quasi consola e chiama alla pietà.

La vita offesa
Il dolore è “disumano”, è un’offesa alla vita, una sua mutilazione. Eppure la poesia di Laura Vargiu, “Come fiori su mutilata fronda”, che ha meritato il primo premio, ha versi di straordinaria commovente umanità. Come infinitamente sorelle due donne in una notte d’ospedale si comprendono attraverso “l’idioma sotterraneo della pelle/ poiché non occorre sentire parole” per “avvicinare distanze tra esistenze ferite”. La poesia è parola che sublima parole (come nota Fabrizio Stefanini nella motivazione), la vicinanza sta oltre l’abisso. “Dopo aver riposto il sudario della mia morte/ trattengo leggera tra le ciglia socchiuse/ il peso dell’ombra del tuo respiro”. La sorella sembra avere un cuore di madre perché il cuore delle donne è materno per sempre, rigenera e rinasce tra rugiada di lacrime, fiorisce anche dalla mutilazione in naturale germoglio.
Così la vita offesa, in naturale abbandono di pietà e di lacrime, trova una sua salvezza.
Nella poesia di Laura Vargiu sono presenti tutte le sfumature di una complessa poetica del dolore proprio perchè l’idea di mutilazione tocca il corpo e l’anima. Ma sono molte le poesie di questo libro in cui essa si declina da motivi diversi nelle modalità diverse dell’assenza, della mancanza, della violazione.
C’è la giovinezza incosciente “violentata” dalla guerra, in “Solo il buio sente” di Federica Bordin. L’“odore della guerra appena dopo l’orizzonte”, come a dire appena dopo lo spazio conosciuto e amico, parole lette nei “cumuli di mani a segnare un dove assente”; e c’è la morte come “agonia di ineffabili assenze” nella poesia “Chiedimi ancora di lui” di Rita Muscardin che invoca lo “smemorare” dell’assenza nell’immenso che si scorge “fra una stella e il cielo”. Così che fra l’assenza e la vita si insinua il tema della memoria.
In “Le parole del silenzio” di Claudia Ruscitti (si noti come “parola” e “silenzio” ritornino quasi a costituire un basso continuo che soggiace alle diverse variazioni) si parla di un “delirio di assenze e di distanze”; ma “la tua ombra mi è rimasta accanto/ e invoca il nome mio lontano/ le mani tese, il carro grigioverde sotto la filigrana delle stelle”; “oscuro” è “il fulgore del mistero”. È una morte crudele e contro natura quella che attraversa le poesie del libro e l’animo degli autori e dei lettori, dentro una realtà di difficile comprensione quale quella pandemica, talora indicata esplicitamente talora soltanto allusa. Per questo forte è il contrasto fra l’offesa alla vita e lo splendore di una natura circostante forse indifferente, forse testimone alle nostre coscienze di un tempo nuovo che attende. Lo sottolinea l’ossimoro di un fulgore oscuro che suggerisce il mistero.
“Marzo 2020” di Rosella Guglielmetti è una presa di coscienza del proprio essere nel tempo della pandemia. Come sottolinea Sonia Cassanelli Apostoli nella sua motivazione, la città taciturna è violata dal “grido delle spaventose ambulanze”, la primavera è “beffarda”, ma la vita, offesa, urla
più forte della morte. Tutto sembra essere un monito: “Voi sapete”.
E ancora, in Ivan Tudisco, “Uomo contro uomo” la guerra che sottrae “abbracci, luci, risvegli e baci impazienti”, ed è solo crudeltà senza giustificazione né differenza fra la camicia rossa o la nera, senza riparo che non sia il riemergere della memoria come un seme nella terra ferita: “Chi venne dopo tentò di portare un Cristo sorridente, ma lo trovò già lì, mentre soffriva abbandonato sul catrame”; “ora ridateci un solo giorno per raccogliere i nostri morti”, “se siamo seme ridateci la terra”, con un passaggio al “noi” che fa emergere questo canto direttamente dal cuore di una storia plurale e collettiva. Come del resto nei ricordi forti e “pieni di dignitosa sofferenza” (secondo Ottavio Gruber nella motivazione) di Gino Zanette, “Ho camminato a piedi scalzi”: ricordi che sono viatico e insegnamento rivolto alle nuove generazioni raccontando il dolore di un “nulla crocefisso”, privazione totale, morte sperimentata nel cammino della vita: “Guidava un passo che stava nel mio piede, nella carne il nulla crocefisso
di stagioni perdute, di donne disperate, caduto il pesco che fronteggiava incanutito il sillabare del vento”.
Dobbiamo ancora citare in questo stesso ordine di discorso la crudeltà di una guerra incomprensibile che violenta e uccide l’infanzia, in “Amir degli angeli”di Rosella Lubrano, che riprendendo lo stile di Spoon River fa parlare Amir di Aleppo che aveva sette anni quando “sotto un cielo attonito e addolorato” perse la vita.
Oppure “Cavallo Bianco”, di Stefania Zitella, in cui la “vita offesa” (per riprendere il titolo di questo paragrafo della nostra introduzione) è vittima di altra crudeltà: quella dei trafficanti di esseri umani, e in particolare dei venditori di “carne” che tolgono nome e dignità, nome e identità a una madre, il suo nome è Andrea, e all’ “ombra” del suo bambino, Antonio.
Dall’uno all’altro “luogo” della violenza e del male sembra non esserci una differenza: l’essenza del dolore è privazione, mancanza; lo dicevano già i filosofi antichi, se non fosse che nella nostra contemporaneità, nelle testimonianze del nostro tempo che la poetica del dolore di cui è percorso questo libro ci restituisce, la dimensione storica ed esistenziale sono presenti in ogni parola, in ogni ritmo e movenza di cui i testi si dotano per esprimerla in pienezza di sentimento.
Siamo quasi sempre nello stesso ordine di discorso e soffriamo egualmente quando si allude all’oggi della pandemia o all’oggi/ieri delle guerre, all’oggi/ieri della violenza per crimine o per corruzione.
Nella poesia di Salvatore Cutrupi “Se questo tempo” la sofferenza è ancora una volta “mancanza”, privazione di spazi e di libertà (con riferimento chiaro alla contingenza pandemica), ma è anche a ben leggere una metafora di ogni solitudine: quando si resta completamente soli non è lo spazio che manca ma il “tempo” con i suoi equilibri e le sue misure, la vita dunque e si confondono speranza e bugia nello sguardo verso un futuro che non si comprende più perché non c’è il presente.
Il tempo è ancora un termine essenziale nella grammatica e nella retorica del dolore poeticamente innalzato dai nostri autori come ad interpretare insieme la nostra condizione, oggi, qui.
Davide Rocco Colacrai in una poesia che rievoca l’attentato al magistrato Borsellino, vi fa riferimento sin dal titolo “57 giorni”. La contrapposizione fra il “prima” e il “dopo” dell’attentato si sintetizza in un tempo che precipita: “il tempo era incerto sulla punta di quelle dita […]” mentre ancora la vita accoglieva le sue consuetudini; “per un attimo cavo e denso come l’eternità” precipitò l’inferno. Anche in questo caso un ossimoro che non può sfuggire alla sensibilità del lettore: l’attimo dell’evento è denso di eternità. I pensieri, con la loro continuità la loro attesa, sono”annullati dalla certezza”, nell’attimo dell’evento; e già il tutto si trasforma in memoria, eppur pregna di una percezione di apocalisse, irrimediabile, eterna, futura, senza tempo nella sua essenza profetica: “Lingue di fumo che mordevano
voraci quanto restava dell’aria azzurra già nel ricordo si allungavano come lacrime amaranto nell’estate a renderle un’apocalisse”.
C’è speranza?
È un vento silenzioso “quasi astratto” , suggerisce Vittorio Di Ruocco in “Il vento silenzioso della morte”, quello che attraversa la “piazza vuota al colmo del mattino”. Qui l’ossimoro fra il vuoto della piazza e il colmo del mattino intercetta la percezione di “astrazione” dalla concreta situazione, quasi ad attribuirle un significato assoluto, fuori da ogni contingenza concreta. E si leva allora, per la voce del poeta, una invocazione alla speranza: “insegnaci ad usare le parole raccolte lungo i viali del silenzio”.
Parola e silenzio: tutto il mistero dell’uomo è in questo binomio che lo avvolge e lo tormenta.
Chiudiamo allora questa prima sezione del nostro percorso critico citando “Virus” di Silvana Sonno: “muoiono i vecchi, muore il Novecento, è questo l’armageddon della storia. Un secolo di mali e di tragedia si scioglie dentro i letti d’ospedale”[…] Il virus mira dritto al cuore stesso di un segmento ultimo di Storia, la Mia storia e mi sussurra come fanno loro le potenze invisibili del fato di acconsentire a chiudere la porta […] ma quanta, quanta ancora nostalgia…”.
Ciò che in Colacrai era Apocalisse, in Cutrupi oscura perdita senza rimedio, in Vittorio Di Ruocco percezione di un male che è oltre la contingenza pandemica, in Laura Vargiu mutilazione fisica e morale, in tanti autori citati violenza e violazione, privazione e mancanza, in questa poesia che (forse unica nel libro) direttamente e senza copertura cita il “Virus”, è catastrofe di una specifica Storia, una storia di tragedie, quella del Novecento.Va notato che l’autrice Silvana Sonno non cede al luogo comune di una tensione fra grande storia e piccola storia, privata personale. La “Mia” storia ha come la storia tout court la lettera maiuscola, è grande Storia, è grande il rimpianto di ciò che si è perduto e la responsabilità verso il futuro. Passato e futuro riconquistano nel senso della storia la loro dimensione.

Un viatico per le generazioni: ricordare, insieme.
Nel libro c’è un nucleo forte, egualmente composito ma anche suggestivamente coerente di poesie in cui quanto detto sin qui si riverbera nella più privata sfera dei rimpianti, della memoria, che diventa
spesso viatico per le generazioni, racconto, insegnamento, responsabilità. E, infine, desiderio, esortazione a percorrere insieme il proprio cammino, con quella solidarietà che già la poesia di Laura Vargiu ha tratteggiato come inscritta nel DNA del dolore come mutilazione. “L’ultima catena” di Cesare Carabba: Cosa può dare un padre ad un figlio quando è la vecchiaia a privarlo delle forze e quasi della vita, se non la libertà di progredire senza di lui ma con la stessa capacità di amare? Corri, corri figlio mio, segui la strada dell’amore, dell’amore che è proprio di un padre, amore che genera e si rinnova. Un giorno ci rincontreremo!
“Non calpestare il mondo” di Migena Arllati, è incentrata, come nota Fabrizio Stefanini nella sua motivazione, sulle scarpe più grandi che il figlio cresciuto calzerà per percorrere il mondo. Non calpestarlo, è l’insegnamento. Sii leggero e gentile come sei da bambino.
A recuperare le parole dell’infanzia, a deporre l’armatura, come sottolinea Assunta Spedicato nella sua motivazione, invita anche Giancarlo Stoccoro in “Se impari a leggere”, perché per tutti (è sempre la riflessione di Assunta Spedicato) vi è stato un tempo utile per imparare a leggersi dentro e a memorizzare sensazioni uniche, quando la curiosità, superando la trincea delle convenzioni, invitava a percorrere e scoprire un mondo buono.
“Questo ho chiesto una volta” di Stefano Peressini, allude a un dialogo fra generazioni e culture nella domanda posta da un “occidentale” civilizzato intorno alla funzione della poesia e nella risposta del vecchio indiano del nord “prigioniero di spettri danzanti e rinchiuso da sempre nel suo brandello di mondo”: risposta che è quasi una preghiera dal contenuto sciamanico: “Mi resta rossa di sangue la terra da quando sogno l’inferno”.
“I vinti” di Anna Maria Rengo è una poesia dall’impronta fortemente anticonvenzionale, “scritta al contrario”, come sottolinea Hari Bertoja nella motivazione della sua scelta come “poesia del cuore”, “dove ogni verso, terribile, grida alla ricerca del suo opposto significato” facendo trapelare il sogno mancato del bene quando “i vinti”, le vittime piuttosto che lottare per riaffermare la propria dignità si rendono colpevoli verso le generazioni successive di un “frettoloso perdono”. Tema complesso quello del perdono, del rimpianto di un mondo “buono” a cui i molti aspirano senza riuscire a conquistarlo.
C’è un nucleo intero di quelle che potremmo chiamare le poesie del rimpianto, della memoria e della nostalgia in cui bene/male, desiderio/perdita, sofferenza/sorriso si intrecciano incontrando le infinte declinazioni della vita e della morte nelle sue più intime risonanze.
Leggiamo “L’eroe fanciullo” di Livio Billo, in cui il mito si confronta con la realtà dei sogni spenti, ridotti in pochi metri di un bilocale, in un “buio senza repliche né applausi”. O il canto a “Livorno” di Elisabetta Biondi della Sdriscia, città depositaria di sogni. L’autrice sembra percorrerla, “aprirsi a delle confidenze” , “condividere la nostalgia di un sorriso che la risacca non può cancellare, e che resta come una luce tra le stelle a illuminare il rientro verso casa” (così Assunta Spedicato nella sua motivazione).
Ci sono poesie (e momenti della vita) in cui i luoghi stessi sono protagonisti (come le città vuote e silenziose del tempo di pandemia) perché segnati da memorie, passaggi, incontri, rimpianti o speranze.
“Il porto fitto di lumi al di là dell’azzurro fatto di scaglie di cielo” è l’oggetto in un’amorosa visione e percezione nella poesia “La donna del porto” di Antonella Riccardi. Ci sono gli odori e i rumori del porto, quasi una rimembranza, e ci sono occhi di donna “opachi, superstiti sulla piana della luna”, che, immaginiamo, ha illuminato il mare per tutta la notte ed ora, al mattino “sotto le ciglia ammainate” lascia luccicare l’infinito.
Molte poesie rivelano con tocchi gentili o arguti, amari o consapevoli, la dimensione privata della sofferenza fatta sempre di rimpianti e di mancanze, di non detti, di storie che non si sono sapute scrivere insieme, di bugie per non soffrire, una contraddizione in termini, perché se la poetica del dolore ci insegna che esso, nel pubblico come nel privato, è privazione, l’inganno, così vicino al tradimento, non può che generare altra sofferenza, privando l’uomo della verità che è l’essenza dell’uomo e delle relazioni di cui vive..
“Senza sognare” di Luigi Belviso, “Ad aspettare” di Aldo Ronchin, “Legame spezzato” di Giulia Bordini, “Lei” di Ornella Gatti, “Epitaffio” di Angela Nese, “Lettera al mio amore” di Sabrina Fiamma, “Chicchi di caffè” di Alessia Gallo, sono poesie in cui gli autori, ciascuno con linguaggio originalmente icastico e fortemente caratterizzato compongono il mosaico delle fratture e degli schianti di cui la vita è spesso portatrice (o colpevole) lasciando l’amaro del fallimento.
Insieme è la parola chiave nella tensione fra sofferenza e vita. “Insieme” nella dimensione privata di un rapporto d’amore potrebbe risolvere una storia mai scritta in una vita piena (lo suggerisce Elena Giacomin nella sua motivazione a proposito di “La chiglia sommersa” di Luciano Giovannini).
“Insieme” rende dolce la vecchiaia e il rimpianto di ciò che non è stato ma in realtà nel suo non essere stato “è” (nella poesia di Davide Bergamin “La mano della sposa”): “Hai lasciato scivolare via l’età dalle mie mani” (dolcissimo questo “scivolare” che immaginiamo come il gesto di una carezza), e nell’apparente rimpianto la riscoperta di una quasi eternità che non è solo memoria, ma segno, vissuto indelebilmente, finché è vita.
Insieme bisogna percorrere il cammino, per capire che cosa sia l’alterità e quanto ci parli di noi, di quella sottile privazione e di quel sottile dolore a cui gli stereotipi ci sottopongono.
In questa dimensione si trovano le poesie “L’altro” di Annarosa Ceriani, “Autismo” di Raffaello Corti, e in qualche misura “Donna” di Linda Pascazio, e soprattutto “A Silvia” di Dylan Casamatti.
“L’altro” è una poesia luminosa (così Maria Luisa Grandi nella motivazione). Libera da stereotipi sa dei timori che accompagnano il confronto fra diversi (“non temere, non ti giudicherò”, accarezzami il cuore “cosicché neppur io debba temerti”) e sa dell’istinto di sopraffazione che ciascuno porta in sé nel volere gli altri a propria immagine. Ma sa anche che essere altro “appartiene alla Luce dell’Immenso”, è miracolo dell’amore. Così anche in “Autismo” è un cammino di conoscenza dentro se stesso di chi sa di essere diverso perché normale e viene con parole di verità attratto in un altro mondo di normalità diversa.
Le infinite contraddizioni del “Femminile” sono altrettante forme di alterità che tutte insieme danno il segno della forza e della vita. Ma soprattutto la timidezza di un Giacomo Leopardi che alla maniera dei poeti del dolce stil novo confida a un amico la sua voglia di amore e gli affida il compito di rivelarlo, si offre a noi, nella poesia di Dylan Casamatti “A Silvia”, con tocco delicatissimo per indicare a tutti la via della gentilezza, dell’amicizia, di uno sguardo sincero e buono, perché tutti amiamo e tutti desideriamo l’amore e tutti siamo fragili delle nostre timidezze: “vai tu, chiede Giacomo all’amico, parlale tu “che sei bambino e non conosci l’angoscia di certe parole”.
Generazioni insieme è di nuovo una chiave di lettura, un approccio alla vita.
In “Nel cielo azzurro il sole splende” di Giuseppe Riccio un insistito “Tu eri, io ti racconto” comunica al lettore/ascoltatore la consapevolezza esistenziale del solco che separa il passato dell’essere, il presente del raccontare. Ci accompagna la voce di chi non c’è più. Nel racconto c’è qualcosa di più che una semplice memoria, c’è la vita della memoria attraverso le generazioni.
Nella poesia “Penelope” di Luca Bressan un figlio ricorda la madre morta con dolore (“ti prego, non parlarmi della mia malattia”) attraverso la consuetudine del loro camminare insieme, consuetudine dei giorni e delle cose che lo avevano visto crescere fino a diventare “figlio”, quasi che si possa essere “figli” solo nella consapevolezza matura del reciproco “essere madre” di chi ci ha generato e fatto crescere d’amore: “Anche così tessevi i quarant’anni di tenace attesa ch’io divenissi figlio”; “mi inchioda come in croce la memoria, mi restano i momenti dolorosi, mi squarciano, mi lacerano, madre, sono ostinata luce”.

La riparazione: verso l’infinito amore
Abbiamo letto con amore le poesie di questo libro, troppo amore per essere soddisfatti della parole che su di esse abbiamo potuto spendere in questa nota critica che solo vuole invitare il lettore ad avvicinarsi ad esse con tutta l’attenzione che meritano non solo in quanto poesie ma per tutto il mondo che vi si riflette.
Un ultimo grande richiamo ci viene ora dal libro nel suo insieme.
Se il male (per i filosofi antichi) e il dolore (per l’uomo nella sua immensa fragilità a partire dal Cristo sulla croce) è mutilazione e assenza, forse è possibile cercare una via per la riparazione di quella vita offesa, che già nella poesia di Laura Vargiu generava solidarietà e fratellanza/sorellanza. Questo percorso passa attraverso momenti di epifania, di squarcio di luce, di “ostinata luce” (riprendendo le parole di Luca Bressan).
Il risveglio chiama tutti prima o poi, sottolinea Maria Luisa Grandi a proposito di Angela Di Bello “Tu sei il tuo pensiero”.
“Il viaggio” di Franco Casadei, è un’esperienza di frontiera (ricordiamo l’“odore della guerra poco dopo l’orizzonte” di Federica Bordin?). Itineranza significa essere sempre in cammino perché un altro mondo si disveli, “per tornare all’origine che abbiamo perduto”.
Qualche volta occorre farsi prendere dalla visione. Giulia Gorella si domanda: “gli occhi sono quesito o risposta?”. Occorre cercare un vuoto per immergersi “in quella nebbia azzurra dove finalmente la tristezza si deforma fino a sciogliersi”; “non sono gli occhi a mostrarci i sogni” (“Un’estate”).
“Un fosso e l’eternità” di Paolo Gambi muove da qualche dettaglio di uno scenario vagamente metafisico soprattutto per la dimensione temporale strana in cui protagonista è un airone cinerino “ciclicamente eterno”. Anche in questo caso abbiamo un ossimoro che sgretola la cultura occidentale
della contrapposizione fra tempo ciclico e linearità per introdurre la forma diversa dell’ Eterno su cui moltri filosofi riflettono almeno da inizio Novecento, il Novecento delle catastrofi e delle tragedie. “Ciascuno di noi è confine tra tempo ed eternità”, scrive Gambi (glielo suggerisce l’airone cinerino); lo si comprende chiudendo gli occhi, dopo avere scritto “versi inutili” (inutili alla visione) mentre “l’airone vola lontano”.
Matteo Lauria guarda la bellezza del mare, “la sola che somigli alla morte”. Poi “in quell’ora del giorno in cui nulla più delinea la fine del mare e l’inizio del cielo”, il suo “librare è autentico e leggero in uno spazio senza confini, l’unico che per seduzione somigli alla vita”.
La vita dunque è fratellanza/sorellanza/itineranza, passaggio di quel confine o frontiera che divide l’io e l’altro, il passato e il futuro, il rimpianto e la dolce consolazione, la solitudine e l’amore, il mare e il cielo.
La vita semplice di un”Fiore selvatico” (Donatella Grasso) che cresce “come giovinetto sotto le cure di madre natura”, in un “tempo senza tempo”, mentre il vento muove i suoi petali, in un giorno qualunque: come accade, si intende, per una qualunque vita nella sua forza e nella sua fragilità.
La vita, che è cammino fra pensieri di ieri e meditazioni sull’oggi in “Tramonto” di Donatella Ferrante: “Di nuovo alzavo gli occhi/ a sfidare/chiunque, qualsiasi cosa/ abbia deciso che io/ debba essere qui”. Ma lo sguardo corre, posandosi sulle infinite sfumature dell’orizzonte creato: “ed oltre lo sguardo/ sgorga sereno il pianto/ ed io chino il capo/ piego le ginocchia/ mi arrendo/ e dico:/ se la ragione non può,/ lascio che il cuore ringrazi/ per tutta questa bellezza!”.

Una riflessione conclusiva
“Infine,/ se il tuo essere Altro appartiene alla Luce dell’Immenso/ abbi ancora più pazienza nel venirmi incontro,/ perché il tuo Amore/ dovrà superare il rumore assordante/ della tua assenza e del mio dolore, che lacerano l’anima /e creano strappi persino più ampi/ della paura e della solitudine.// Così ci incontreremo,/ cresceremo/ e insieme cammineremo”…
Avevamo già citato alcuni di questi versi da “L’altro” di Annarosa Ceriani. Ora, alla quasi conclusione di questo percorso di letture possiamo meglio immaginarne il significato. E’ come se l’uomo dovesse riconoscere la sua alterità, la sua pena, la sua mancanza rispetto a questo Amore infinito che solo può riparare in lui l’antica ferita del dolore. Persino la poesia sente il bisogno di tacere dopo avere metaforicamente risalito la malinconia, come un gabbiano. Questa è l’esperienza dell’uomo che oltrepassa l’orizzonte verso una vita diversa. Dopo il silenzio della poesia “raccolsi le mie orme, un briciolo di tempo e tornai fra gli uomini per non farmi più trovare” (“Una carezza”, Nazionale italiana di poesia).
“Quello che amo” di Flavio Provini: “Amo la caparbietà del bucaneve/che morde il gelo per sbirciare il mondo […], la solitudine eterna delle isole/ ogni volta illuse da una carezza d’onda,/ le distese di zagare e aranceti/assorte nella pace che la città ha perduto,/ […]Amo la terra, la sua pena dell’aratro […] Quello che amo è il miracolo che vedo/ che mi fa ricco anche se nulla chiedo,/ quest’infinita poesia d’autore/ nella metrica di chi la sa apprezzare/ sul foglio intonso di ogni mattino,/ capace di stupirmi ieri, e oggi ancora/ come giostra, la prima volta, un bambino”.
La totalità dell’amore e l’ingenuità del bambino: la vita è reintegrata nella purezza dello sguardo.
“Quando l’ anziana maestra Alma morì,/ in paese nessuno pianse […] Quando l’ anziana maestra Alma morì/ in paese nessuno se ne accorse.// E fu per questo/ soltanto per questo/ che nessuno pianse. (“Il paese” di Bruno Bianco).
Come scrive Gabriella Valera nella sua motivazione: “Nella sua semplicità formale la poesia è crudele come la vita. Non si indigna, non urla, semplicemente constata. Perché l’anziana maestra Alma ne avrebbe meritate di lacrime e anche ricevute se la vita vissuta freneticamente dagli abitanti del “Paese” (assai simile ormai a qualsiasi alienante città) non avesse smesso di accorgersi di lei. Perché è proprio così: lo sa il poeta, lo sa il lettore, lo sa il “Paese” e lo sanno le nostre città. La vita non può farsi distrarre dalla morte. Nella poesia, però, il vuoto lasciato dall’anziana maestra Alma diventa struggente desiderio di una perduta umanità”.
Così il dolore e l’amore sono i poli di un tempo che è il nostro. Di sempre forse; ma queste poesie, sono voce del nostro tempo, ne testimoniano la travolgente complessità, impongono una responsabilità che oltre il verso e la ragione coinvolge tutta l’anima, oltre la “retorica” e l’ ordine del discorso, suggeriscono una poetica di cui si fa portatore ciascuno di noi, che ha dedicato tempo e passione alla formazione di questo libro, gli autori, i giurati del concorso, i curatori e ci si permetta di ricordare anche
gli esclusi, che pure hanno comunicato emozioni e pensieri dando corpo tutti insieme ad una riflessione che sarebbe stata altrimenti meno ricca e coinvolgente.
A tutti il nostro grazie.


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