lunedì 28 settembre 2020

Intervista ad Antonello Sòriga, Vincitore per la Narrativa al XV° Premio Letterario Internazionale Napoli Cultural Classic

"In A Volo D’Angelo il lettore potrà ammirare
parti nascoste di una Sardegna narrata pochissimo
e di un fascino e una bellezza sfacciata."


Antonello Sòriga, vincitore del I° Premio assegnato dal Presidente di Giuria l’editore Giuseppe Laterza per la Sezione Narrativa al XV Premio Letterario Internazionale Napoli Cultural Classic, ci parli di lei e ci dica, oltre la scrittura, quali sono le sue passioni.

Sono nato a Cagliari nel 1961. Vedovo da quindici anni ho due figli, Marta di ventisette e Luca di quasi diciotto anni: i miei gioielli. Nascere e vivere in un’isola, in una città di mare, ha la sua rilevanza:
mi sento radicato nelle sue atmosfere, dell’aria salmastra, nella lunga spiaggia che fa da limes alla città. Sento scorrere in me la sua storia, la sua cultura millenaria, il suo essere solitaria in mezzo al Mediterraneo, ne percepisco le antiche ferite e i recenti lividi, impressi da innumerevoli dominatori. Questi hanno lasciato il segno del loro passaggio (dai Fenicio- Cartaginesi, passando per l’Impero Romano, Bizantini, Pisani, Genovesi fino ai Savoia), nell’architettura, nella cultura ma soprattutto nella lingua, nella visione del mondo, nel sangue degli abitanti: Sento questa lunga storia scorrere in me e arrivare inevitabilmente alla mia scrittura. La letteratura mi ha affascinato fin da ragazzino. Ho preso la laurea in lettere moderne e oramai da quasi trenta anni sono professore di ruolo alle scuole superiori. Ma alla fine degli anni ‘80 mi sono innamorato della psicologia, in particolare della clinica sistemico –relazionale e dal 1991 esercito come psicoterapeuta.


Inutile dire che oggi, in ogni pagina che scrivo, volente o nolente, la dicotomia follia/ragione, maschera e volto sono pirandellianamente presenti. Proprio con il lavoro premiato a Napoli, ho dato il via ad una nuova ricerca narrativa che guarda alla tradizione pirandelliana ma cerca nuovi sbocchi in una sorta di neo-utopia non necessariamente distopica. A volte viene da credere che la catastrofe incomba ineluttabile, poi la primavera torna, volano le rondini, ci si innamora e i bambini crescono, diventano giovani e infine uomini migliori di chi li ha preceduti. Sono persuaso del fatto che a tali convinzioni sia arrivato anche perché fin da ragazzo ho lavorato in contesti impegnati socialmente; dall’obiezione di coscienza al servizio militare, al pacifismo militante degli anni ottanta, alla sua evoluzione in idea di lavoro liberato, capace di evolversi fuori dalle rigide idee burocratiche e tradotto nella fondazione di strutture in cui davvero “uno – vale - uno” non come slogan effimero, ma creando cooperative sociali, società di mutuo aiuto che al loro interno praticassero l’antico esercizio, l’immane sforzo, l’improbo sacrificio, di applicare la democrazia anche alle loro dinamiche interne. Alcuni dicono che ho perso la partita e ceduto ai compromessi, alle mezze verità, al “volemmose bene!”, alle flessioni capaci di cambiarti radicalmente. Non penso sia avvenuto. Certo è un fatto che abbia negli scorsi anni accettato di ricoprire il ruolo istituzionale di Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Cagliari e curato la professione come Tesoriere dell’Ordine Regionale degli Psicologi. Non credo che questo possa annoverarmi fra coloro che “nascono incendiari e diventano pompieri.” Al netto degli errori, conservo in me l’idea di aver fatto ciò che era giusto e possibile fare. Dalle deviazioni e dalle inevitabili mediazioni ho imparato in ultimo che la diversità è un meta-valore. È fondante. Una civiltà matura non dovrebbe misconoscere tale sostrato valoriale. Per esemplificare, usando il tema di sanità mentale, non si dovrebbero incaricare pletore di strizzacervelli per tradurre la diversità in follia e questa in malattia allo scopo di eliminarla dalla nostra quotidiana realtà. Su questo, se il lettore vorrà approfondire il tema, potrà andarsi a leggere il mio saggio “Breve storia Sociale della Follia” che chiude la mia raccolta di novelle “Storie da Matti”

Il racconto dal titolo “A Volo d’Angelo”, da lei presentato, è stato premiato, oltre che per la scrittura appassionata e lineare, per la accuratezza con la quale descrive paesaggi e stati d’animo. Come le è venuta l’idea per questo racconto?

Confesso che A Volo D’Angelo e le altre novelle che comporranno la mia prossima pubblicazione, sono nate quasi per gioco. Un amico agriturista che esercita nel territorio più selvaggio e meno turisticizzato della Sardegna - il Sulcis iglesiente e la Costa Verde - mi ha scherzosamente invitato a descrivere quei territori proprio perché pochissimi lo hanno fatto. Non voglio fare torto ad alcuni autori che in quelle zone hanno ambientato le loro belle opere, come Giampaolo Pansa (Notte a Is Arenas) o Marco Corrias (Piombo Fuso) e altre, ma quando è accaduto, la Costa Verde, ha più che altro offerto uno sfondo su cui le vicende si stagliavano; non ho avuto l’impressione di una immersione nei suoi colori, profumi, sfumature e storie che, per chi avrà la pazienza di leggere la mia pubblicazione prossima, vedrà quanto siano ricche e degne di diventare soggetto alla pari di un personaggio. In A Volo D’Angelo il lettore potrà ammirare il Pan di Zucchero, Porto Flavia, Piscina Morta, Capo Pecora, Cala Domestica, Portixeddu, il Tempio di Antas e altre parti nascoste di una Sardegna narrata pochissimo e di un fascino e una bellezza sfacciata.

Ci parli della sua formazione e dei suoi gusti letterari. Qual è il suo esempio di scrittore?

Sono un lettore vorace e fra narrativa e saggistica ogni anno mi passano per le mani oltre cinquanta libri. Elencare gli scrittori che amo è un esercizio difficile perché mi sentirei in colpa a nominare questo e non quello da cui magari ho apprezzato un singolo aspetto. In ogni caso sarebbe un lungo elenco che potrebbe risultare stucchevole per chi legge. Mi limiterò (escludendo i classici della letteratura italiana e sarda che do per scontati) citando a memoria, alcuni fra gli scrittori contemporanei fra cui sicuramente- per la capacità magistrale di intessere trame e intrecci da giallisti (ma non solo…) – A. Camilleri, M. De Giovanni, G. Carofiglio, A. Manzini per la potenza dell’espressività linguistica D. De Silva, M. Murgia, N. Ammanniti per l’originalità e l’apparente leggerezza dell’espressione M. Marziani, S. Veronesi, M. Agus ma potrei continuare a lungo, soprattutto volgendo lo sguardo oltralpe e ancora di più oltre oceano.

Aveva già avuto modo di mettersi in gioco attraverso altri concorsi letterari?

Nella primavera del 2017 ho dato alle stampe “Nel Pozzo”, edito da Antonio Tombolini ed. , il mio primo romanzo. Con questo ho vinto la VI edizione del Premio Artese, Città di San Salvo – concorso nazionale per opere prime - nell’estate 2018.


È un’esperienza che ancora tengo in un angolino del mio cuore per la splendida accoglienza e la gentilezza degli organizzatori ma soprattutto perché per la prima volta nella storia del Premio Artese Nel Pozzo ha messo d’accordo la giuria popolare e quella tecnica vincendo in entrambe le categorie.


La sua copertina, inoltre, ha vinto il 71° Premio Massarosa. Pensavo potesse darmi più soddisfazione in termini di diffusione, dato che moltissimi sono stati i riscontri positivi da lettori vicini e lontani. Purtroppo l’editoria in Italia percorre vie a me ignote, che mi paiono legate più alle esigenze di mercato che alla qualità del prodotto letterario. Non si spiegherebbero effimeri successi di lavori mediocri e l’assoluta indifferenza con cui scritti che reputo di grande valore, vengano ignorati (non parlo certo delle mie modeste produzioni ma quelle di scrittori di grande spessore culturale che giacciono nei fondi di oscure librerie, invenduti e soprattutto non letti!). Credevo che Nel Pozzo avrebbe aperto delle finestre ma il fallimento della mia piccola (ma coraggiosa) casa editrice non ha facilitato la promozione e la diffusione che (forse) avrebbe meritato. Cerco tutt’ora un editore coraggioso che voglia farne una nuova edizione, chissà se il signor Laterza vorrà pensarci …


Ora è la volta di A Volo D’angelo (2020) che contiene la novella vincitrice della Sezione Narrativa al XV Premio Letterario Internazionale Napoli Cultural Classic e spero che la ea-lab editrice voglia investire tempo ed energie sul mio lavoro.

Quali finora le sue pubblicazioni?

Le mie prime esperienze di scrittura vanno ricercate in ambito psico-educativo (con altri ho scritto Percorsi di Formazione Alla Nonviolenza 1991 Satyagraha ed, (con riedizione arricchita del primo volume) Reti di Formazione alla Nonviolenza 1993 con Pangea ed di Torino)


A cavallo con il cambio di millennio mi sono occupato di gestione di gruppi e società che lavorano nell’ambito della agricoltura biologica, coordinando un progetto europeo che ha coinvolto diverse società della mia isola. Il saggio finale edito da Consorzio Ecosviluppo Sviluppo Sostenibile nel Marghine –Planargia e nel Sulcis Iglesiente (2001) racconta quest’avventura decisamente avanguardistica per i tempi in cui si è sviluppata.


Dopo questa esperienza ho incrociato l’Associazione Sardegna Belarus che si occupa soprattutto di accoglienza internazionale, e che mi ha coinvolto con la formazione alle famiglie che accoglievano bambini per il loro risanamento dopo il disastro nucleare di Chernobyl. Il risultato di questa collaborazione è il manuale “L’altalena di Chernobyl” (2006) edito da Armando ed.


Unendo infine la mia pratica clinica con le acquisite competenze letterarie ha visto la luce “Storie da Matti (2011)” – Vertigo editore, che considero un lavoro di svolta e di passaggio, in cui la psicologia sposa la narrativa, attraverso dodici novelle. Di qui svariate pubblicazioni di novelle e racconti brevi, pubblicate in antologie sarde e nazionali. Degli ultimi lavori, Nel Pozzo e A Volo D’Angelo ho già detto.


A cosa sta lavorando attualmente?

Da alcuni anni sto lavorando a due romanzi, uno dei quali è l’evoluzione di una novella contenuta in A Volo D’Angelo e un altro, molto impegnativo sul piano della ricerca storica, che penso mi darà da fare per i prossimi anni. Ho deciso di fare della narrativa la mia professione nella parte più matura della mia vita.

Per lei, come scrittore, il lockdown a causa del covid-19 è stato un momento che ha convertito in creatività oppure no?

Ho la fortuna di vivere nel centro di una città, in una casa dotata di ampia terrazza. L’inatteso silenzio per la mancanza di traffico, la cura delle piante, il lavoro manuale per piccole ristrutturazioni, l’insegnamento a distanza, i pazienti on-line, la lettura sono stati i miei compagni. La scrittura purtroppo no. Rischio di essere banale ma è la verità. La mancanza di libertà, la riduzione delle relazioni sociali, l’impossibilità ad uscire di casa non hanno favorito per nulla la mia produzione letteraria, anzi, stare davanti alla tastiera è stato in alcune fasi del confinamento quasi doloroso.


IL RACCONTO I° Classificato


A VOLO D’ANGELO

La domenica, alle prime luci dell’alba, Cagliari sonnecchia e a parte qualche lento spazzino e nottambulo di rientro, le strade sono deserte. E’ una fulgente mattina di maggio, luminosa e fresca allo stesso tempo. Cappuccio e cornetto al Bar Roma - nell’omonima via - e poi via verso il Sulcis. Nebida mi aspetta. La Statale 130 è fra le strade più noiose - per questo è anche fra le più pericolose - che io conosca. E’ difficile tenersi svegli, guidare su una striscia nera rettilinea lunga quasi cinquanta chilometri, che attraversa una pianura gialla, riarsa dal sole, molto simile alla porta di un deserto messicano. Ma non oggi, è una giornata che aspettavo da tanto e a Nebida mi attende zio Francesco. No, non è davvero mio zio, è un vecchio cavatore che conosce a memoria tutte le miniere fra Buggerru e Carbonia. L’altro giorno l’ho sentito per l’ennesima volta al telefono. Nonostante avesse la voce incerta mi ha detto nel suo italiano approssimativo. “Va bene! Sono stufo di sentirti chiedere, vieni di buon mattino che ti faccio sporgere dalla porta della galleria del Vecelli”. Era da tempo che facevo la corte al vecchio minatore e finalmente ero riuscito a fare breccia nella sua scorza. Zio Francesco ha una faccia che si potrebbe descrivere come antica e rugosa, in verità è proprio corrugata, come le colline di Nebida: un viso che potrebbe definirsi emerso dallo scisto più che scolpito, con profonde fenditure sulle guance smunte, brunite dal sole, solcate dal vento, armonizzate dall’acqua. Radi capelli bianchi, protetti da una coppola grigia che – probabilmente - li difende da decenni. La schiena denuncia un’età imprecisa e le mani leggermente ricurve e callose, ricordano senza indugio, il suo passato di minatore. Nonostante i giacimenti siano chiusi dagli anni sessanta, lui continua a viverli, per gli amici, per i piccoli gruppi di eletti, per gli indomiti innamorati di questo territorio o forse più semplicemente per nostalgia, abitudine, irresistibile attrazione per la terra. Avevo tentato decine di volte di farmi accompagnare dentro quelle miniere e non ero mai riuscito a convincerlo. Una pioggia troppo intensa, l’artrite che si risveglia, la nebbia che improvvisa sale dal mare con una libecciata, avevano sempre impedito di esaudire il mio progetto di vederle, queste antiche cave, filtrate dagli occhi, le mani, i racconti e l’anima di zio Francesco. Lui, che ci ha lavorato fin da quando aveva dodici anni e che rimane uno degli ultimi testimoni di un mondo passato e forse perduto. Sacerdote laico di un rito pagano che sa di zolfo, piombo e argento. Nel Sulcis le miniere sono consustanziali, sono la sua storia moderna, quintessenza della sua realtà, immutabile e contemporaneamente universale natura delle cose. Zio Francesco ne porta i segni nel corpo ricurvo, nelle mani artritiche, nel sentire silenzioso, nello sguardo che penetra gli anni e sa trasferire un sapere profondo che altrimenti morirà con lui.
Lasciata Iglesias e la piccola galleria che immette nella SS 126, già mentre si scende verso Carbonia, le miniere ti compaiono davanti con le terre di riporto, grigie, rossastre, ferrose di Monteponi e ti seguono con mille case diroccate, antichi macchinari dismessi che solo cinquanta anni fa, (distanti come appartenessero a un’altra era geologica), erano dei mostri di ferro e fumo, che cavavano materiali dal ventre della terra e deponevano migliaia di tonnellate di fanghi dilavati proprio sui margini dove ora la strada corre. Il sole del mattino, illumina quelle colline innaturali che mirti, ginestre e arbusti stanno faticosamente ricoprendo, come fossero davvero colline che da sempre regnano sovrane e non siano, come sono, un infinito termitaio, artificio suburbano dell’attività estrattiva che ha sconvolto il paesaggio originale. Le vecchie case dei minatori, quasi tutte costruite in pietra, ti osservano con le loro orbite vuote, gli infissi penzolanti, i tetti di travi in legno perforate dai tarli e con il cielo al posto delle tegole. Superato lo svincolo che immette nella SS 83, anticipato da folate di vento che ne trasportano il profumo, il mare. L’azzurro intenso è improvviso e si perde verso le isole Baleari, dalla battigia di Fontanamare. Ma è un attimo e subito ti ritrovi fra i tornanti della litoranea che serpeggia fra gli strapiombi e l’azzurro del cielo che lotta con quello del mare. L’autoradio, come avesse capito di essere in un limite, un confine, un margine, comincia a sintonizzarsi con le antenne della Spagna. La strada è stretta e in ogni stagione, con qualunque temperatura o fortunale, trovi sempre gruppetti di turisti che a bocca aperta ammirano la costa, scattano fotografie nell’incerto tentativo di portare a casa uno sbiadito ricordo di quell’emozione, di quei paesaggi; riempiono i polmoni d’aria di infinito che mostra, a momenti, la sua natura selvaggia, la risacca feroce di un mare bello e terribile, che in ogni momento pare ricordare agli uomini, la loro piccolezza, l’ impareggiabile grandezza della natura, la sua magnifica potenza tradotta in onde, scogli, faraglioni e diruppi. Con questa veduta ancora negli occhi accosto la mia automobile davanti al bar La Piazzetta, dove zio Francesco mi aspetta sorbendo il suo ennesimo caffettino.
“Oh Anto, credevo che non venivi più”, mi dice stringendomi la mano, “voi casteddaiusu siete strani, mai che ci si possa fidare. Avevamo detto a mengianeddu chizzi[i]: sono qui dalle sette che ti aspetto”. Zio Francesco scusami, ma per me, ora è mengianeddu chizzi, sono le otto e venti … si sono appena svegliate le galline a Nebida … “Ellusu![ii]”, si limita a rispondere il vecchio, che subito è in piedi e si dirige verso la macchina. “Aiò!, che non facciamo in tempo a vedere nulla”. In breve mi guida all’ingresso della miniera di Porto Flavia, ancora una volta chiusa al pubblico per infiltrazioni d’acqua. L’amministrazione di Iglesias da sempre permette al vecchio Francesco di entrare a “casa sua”, come la chiama lui, e portare qualche amico. Oggi questo privilegio è finalmente toccato a me. Armati di scarponi e lampada, entriamo in galleria e zio Francesco - qui dentro - sembra ringiovanire: mostra, racconta, si ferma a riflettere e poi riprende a camminare come se fra i mille ricordi e pensieri, scegliesse quelli adatti a me. Saliamo e scendiamo fra vecchi nastri trasportatori, depositi scavati nella roccia, impalcature in legno che costringono ad abbassare il capo, scheletri di compressori e perforatrici Tex 30, con cui i minatori violavano la terra, a torso nudo, caricando i materiali su piccoli vagoncini che si allineavano, come un enorme bruco, a una motrice minuscola ma potentissima, che trascinava il carico fino alla tramoggia d’uscita di Porto Flavia. “Vedi Antonio, io stavo qui dentro, a volte anche dodici, tredici ore. D’inverno entravo che ancora la notte non era andata via e uscivo che era tornata. C’erano periodi che non vedevo la luce del sole per mesi, fino alla primavera. Io e sa bonanima di Peppineddu Trincas, ci abbiamo trascorso la gioventù intera qui dentro e quando arrivava il sovrastante, Jaime Porcu- ‘stizzia du tiridi [iii]- dovevamo far finta di essere freschi e riposati, perché altrimenti il giorno dopo era capace di lasciarci all’ingresso, senza paga. Chi glielo diceva poi a babbo che quella mattina Jaime Porcu non ci aveva preso, fianta croppusu e basta![iv]” La voce di zio Francesco risuonava profonda in quelle gallerie e i vecchi binari aiutavano a orientarsi nel labirinto oscuro. A tratti il cammino si faceva silenzioso. Si sentivano solo i rumori dei nostri passi e il respiro pesante del vecchio. Più andavamo avanti nell’esplorazione, più aumentavano i silenzi. In principio li interpretai come pause necessarie a Zio Francesco per riprendere fiato, poi capii che taceva appositamente, voleva farmi sentire il respiro della montagna. Ogni tanto si arrestava e con l’indice alzato sembrava attirare la mia attenzione su un suono, uno scricchiolio, l’eco di un tonfo che probabilmente sentiva solo lui e che veniva da chissà quale luogo o tempo remoto e risuonava nel suo animo. Dopo alcune ore di cammino: “Saliamo su, alla seconda galleria, quella che sbuca davanti al Pan di Zucchero” dice l’anziana guida.” Lo scoglio più grande d’Europa, davanti a cui attraccavano le navi da trasporto” - dico io-, per mostrare al vecchio di non essere del tutto estraneo alla storia di quei luoghi. “L’ho visto, durante una gita in gommone, fatta proprio per ammirare i cinque faraglioni di cui il Pan di Zucchero è il re incontrastato. “Ehh”, sospira Francesco, “quanto tempo è passato, quante volte ho dato il cambio a Peppineddu e sono rimasto in bilico sullo strapiombo, aspettando che la stiva della nave di turno fosse piena…” La voce di Zio Francesco era lievemente cambiata, quasi si fosse riempita di malinconia, per qualcosa che non riusciva ad emergere, a tradursi in parole. “Mio padre, anche lui minatore, ha assistito all’inaugurazione della porta Vecelli, che di sua figlia ha preso il nome, nel 1922, Flavia. E mio nonno ha accompagnato in queste stesse miniere Gabriele D’Annunzio, nel 1882”. A quella rivelazione io - usando un’ironia di cui sicuramente zio Francesco non si è accorto, ho detto pensando al poeta abruzzese– “e il Vate non ha lasciato nemmeno una poesiola o una firmetta in questi luoghi, strano!”. Come è noto il D’annunzio è stato in Sardegna, nella primavera di quell’anno e come i cani che marcano il territorio ha lasciato un po’ in giro i segni del suo breve ma intenso passaggio, a Villacidro, a Oliena e Cagliari. “Oggi” ha ripreso l’anziano minatore- “è solo uno degli scorci più belli del nostro mare di Sardegna, eppure, se potesse parlare, ne avrebbe di storie da raccontare. Arrivano qui anche i giapponesi per ammirarla, questa benedetta porta Vecelli, ma io ho visto più di un compagno, vinto dalla stanchezza, addormentarsi su quella balaustra che dà al mare e alcuni, purtroppo cadere giù, come sacchi di cemento senza anima. Quando arriviamo in alto ti mostro il punto esatto dove ho visto finire tante giovani vite.”.
Procediamo ancora per un buon quarto d’ora, in cui il vecchio non parla più, il suo respiro si è fatto incerto, quasi come di chi ricorda, rimugina e insieme trattiene le lacrime. Per discrezione taccio anche io, fin quando in lontananza si vede un primo bagliore, poi una luce sempre più intensa. Ci siamo. Siamo arrivati. Un’ enorme porta in pietra e cemento, coronata dalla scritta Porto Flavia, si apre su un paesaggio unico al mondo. Sua Maestà il Pan di Zucchero giganteggia proprio di fronte a noi, rendendo con un effetto ottico ancora più grande lo strapiombo di un centinaio di metri che si apre sotto di noi. A proteggerci c’è solo una balaustra in cemento che ci arriva alla cintola. Un sistema di scale percorre la parete a piombo sul mare e sembra preso da un quadro di Eschere, quelli in cui non si comprende il sopra e il sotto, chi sale e chi scende, qual è lo sfondo e qual è il soggetto in primo piano. La luce che inonda tutto è potentissima, abbacinante, in relazione allo scuro della miniera. Il Pan di Zucchero o, Concali su Terràinu, come ancora alcuni anziani locali lo chiamano, è un faraglione che si erge dal mare svettando per 133 metri a poca distanza dalla costa, come una montagna che prenda vita dal mare e si stagli in verticale sfidando la gravità. Abituo pian piano la vista e volgo lo sguardo alla spiaggia di Masua, poi verso l’orizzonte infinito del mare, in cui si scorge indistinta la costa che arriva fino all’oristanese: tutto è luce e silenzio, mentre nel fondo il mare sembra placido, troppo lontano per far giungere fin qui il suo sciabordare. Mentre cerco di collocare dentro di me tutte queste sensazioni, scorgo zio Francesco che, con passo decisamente ringiovanito, è già salito per alcune scale. E’ giunto al parapetto più estremo della porta Vecelli, proprio dove un tempo collocavano la tramoggia di carico per le navi. Si volta un attimo e mi pare faccia cenno di raggiungerlo. Con mille attenzioni salgo anche io per quei gradini corrosi dalla salsedine e quando raggiungo l’anziana guida lui è in piedi sul parapetto. Non capisco come abbia fatto a sollevarsi fin là sopra e non comprendo nemmeno le parole che le sue labbra sussurrano all’orizzonte, forse una preghiera o chissà quale dialogo interno. Sotto di lui un balzo che sembra infinito. Il vecchio in ultimo si volta, mi sorride e senza un apparente motivo spicca un perfetto tuffo all’indietro. Come in una scena al rallentatore non ho il tempo e il modo di fare nulla se non vedere quel corpo volare, improvvisamente elastico, elegante, flessuoso. Zio Francesco spalanca le braccia e il vento strappa via la coppola dalla sua testa, gli scompiglia i radi capelli, fa svolazzare la sua giacca tanto che sembra avere le ali, quelle di un uccello preistorico che, in un perfetto moto a planare, esegue un impeccabile tuffo a volo d’angelo, con il quale arriva giù e scompare. Nel mare.


[i]Al mattino presto;
[ii] … e come no!;
[iii] … che la giustizia lo perseguiti;
[iv] erano botte e basta.


Motivazione della Giuria

Una scrittura fluida capace di evocare paesaggi naturali e dell’anima. Luoghi disegnati con l’inchiostro indelebile delle proprie radici, col colore vivo del rispetto per ogni vissuto. Un viaggio all’insegna di una bellezza che non urge essere interpretata, bensì vissuta.

Assunta Spedicato.


Nota del Presidente di Giuria

Al termine di questa lettura si po’ sentire l’odore pregnante dello zolfo della miniera, o l’acre sudore dei minatori, le loro fatiche, le loro lacrime. La memoria vivente dello zio Francesco conduce il giovane per labirinti tortuosi in una visita sconvolgente e pregna di sensazioni. L’epilogo è significativo di una intera vita immolata al lavoro e alla sofferenza, con la fermezza e la determinazione di genti antiche, sempre artefici del loro destino pur se oppresse, ma sempre pronte a spiccare l’ultimo volo di libertà.

Giuseppe Laterza.

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